martedì 11 settembre 2012

Manuela Petescia, nostra Signora delle televisione

Sembra incredibile, eppure pur vedendola da anni sullo schermo e irrompendo nelle nostre case si può anche arrivare a dire di non conoscerla abbastanza. Ma chi? Si sta parlando di “nostra signora della televisione”, ovvero Manuela Petescia.  E arrivare a farle la prima domanda dell’intervista, che adesso leggeremo insieme tutto d’un fiato, che alla fine può sembrare persino banale. Ma che fotografa, da un’angolazione psicologica il personaggio, a tal punto da “inquadrarla” alla perfezione.  Alla domanda chi è Manuela Petescia cosa ti risponde? «Come sarebbe chi sono? Il direttore di Telemolise».
A chi sarebbe aspettato, ad esempio, una frase del tipo:  «Sono una donna, bla bla,,, che pur facendo la mamma e impegnata in mille altre cose fa delle cose e anche la televisione, ti risponde semplicemente: sono il direttore di Telemolise. Come a dire che chiamarsi Manuela Petescia e dire Telemolise sono la stessa cosa. E in effetti non si può che condividere questa considerazione. E restarne affascinati al pari di un bambino, che guarda una mela caramellata e la fissa a lungo, anche dopo averla avuta e non la mangia per paura di non averla più, di rimanerne senza.
Sono sincero, non avevo mai pensato di intervistare Manuela. Ma poi mi sono detto: perché no. In fondo non si finisce di conoscere abbastanza una persona, per giunta con un ruolo così pubblico come quello di giornalista televisivo. Ed ecco che una domanda dopo l’altra hanno permesso di costruire un percoso conoscitivo che aiutare a comprendere, meglio, chi è Manuela Petescia, il direttore di Telemolise.

Dalla culla e non dalla scuola deriva l’eccellenza di qualunque ingegno. Quando hai detto “da grande farò la giornalista”?
«Mai, è stata una casualità. Io volevo andare a Bruxelles a fare l’assistente parlamentare di Biagio De Giovanni».
A chi devi qualcosa per la tua professione?
«A Lelio Pallante».
Perché non perdi occasione per ricordare Lelio Pallante?
«Perché era una persona speciale e perché non voglio dimenticarlo».
Qual è il segreto del successo di Telemolise?
«La squadra. Da soli non si va da nessuna parte».
Sul terremoto la televisione che dirigi ha scritto pagine importanti di informazione.
«Pagine dovute, sofferte. Pagine che non avremmo voluto scrivere mai».
Sei stata anche protagonista di campagne che hanno avuto eco a livello nazionale.
«Ho provato ad aprire spazi nuovi (e gratuiti) alle campagne di solidarietà sociale. L’idea si è rivelata vincente, vista anche l’attenzione ricevuta da mezzi di informazione importanti, come Canale 5 o la pagina web di Repubblica».
Vogliamo ricordare che la televisione che dirigi è stata anche premiata a livello nazionale al pari dei colossi dell’informazione?
«Se ti riferisci al tg d’oro, quello è stato uno dei riconoscimenti professionali più importanti per Telemolise, dopo la tesi di laurea proposta da Aldo Grasso che studiava proprio il nostro modo di fare informazione».
Perché nell’immaginario collettivo Telemolise viene chiamata Teleiorio?
«Perché abbiamo creduto nelle grandi qualità di Michele Iorio, nelle sue grandi capacità politiche e amministrative, e abbiamo sempre sostenuto le sue scelte. In modo limpido e trasparente, dichiarando la linea editoriale senza fare finta di essere obiettivi a tutti i costi, cosa che del resto dovrebbero fare tutti. È molto più scorretto simulare di essere super partes che dichiarare un’appartenenza politica. Altrimenti si rischia di cadere nel ridicolo, con tentativi grotteschi di giustificare l’ingiustificabile. Un esempio locale? Le biomasse, che gli organi di informazione-finto-obiettivi definiscono maleodoranti a destra e profumate a sinistra. Anche se poi in effetti, per Telemolise, più che un’appartenenza politica si è trattato di una vicinanza alla persona di Michele Iorio, se è vero – come è vero – che questa stima e questa amicizia non ci hanno impedito di dare spazio a tutte le voci alternative o di schierarci contro i governi di centro destra, fino a mandare in onda spot contro la lega o contro la legge sulle intercettazioni. Per non parlare dello spettacolo inglorioso delle oche (e delle prostitute) mandate in parlamento, un fenomeno tutto berlusconiano che ha delegittimato il genere femminile nel suo insieme e che Telemolise denunciò molto prima degli scandali nazionali. Ad ogni modo la politica è solo il dieci per cento dell’attività giornalistica: Telemolise è molto di più, dà voce a un territorio povero e dimenticato, è al servizio dei cittadini».
Ma si può essere vicini a un presidente di centro destra senza essere di centro destra?
«Assolutamente sì, e ho la presunzione di credere di esserne la prova vivente. A parte tutte le riserve che si possono fare sulle categorie di centrodestra e centrosinistra, in particolare qui nel Molise».
Qual è il tuo rapporto con Iorio? Ultimamente sembra che l’incantesimo si sia rotto.
«Sicuramente, da addetti ai lavori, abbiamo dovuto registrare certi risultati. È successo nello scorso ottobre, quando Iorio ha vinto le elezioni regionali per un soffio, e poi in maggio, alle elezioni comunali di Isernia, quando la città si è espressa nel modo che tutti ricorderanno. Ci saremmo aspettati, a quel punto, una svolta rispetto al passato, una virata, un segnale fortissimo di cambiamento. Tutto, invece, si è trascinato stancamente come prima. Da giornalisti ne abbiamo dovuto prendere atto, e darne testimonianza. Ma l’incantesimo non si è rotto. E anche nel periodo di massimo dissenso abbiamo ribadito (l’ho fatto io personalmente in diverse occasioni) che la tv resta vicina al Presidente. La speranza, casomai, è di riuscire a svolgere la funzione di critica e di stimolo, che tocca alla stampa, con maggiore efficacia. Ma quella di salire su un altro carro sarebbe una scelta meschina, non coerente con la nostra storia, e probabilmente incomprensibile. Siamo stati con Iorio quando era forte, restiamo con lui ora che il vento sembra essere cambiato».
Suscita simpatia vederti nelle dirette intervistare il senatore Ulisse Di Giacomo.
«È vero. Con grande egoismo, consapevole che il suo ingresso diretto in politica mi avrebbe creato imbarazzo, ho tentato in ogni modo di dissuaderlo dal candidarsi. E resto convinta che ne sia rimasto danneggiato: di questi tempi un bravo primario cardiologo (e lui è un ottimo medico, non lo dico in qualità di moglie) è stimato molto di più di un deputato, di un senatore, o di un qualsiasi politico. Ormai il dissenso e il disgusto popolari travolgono tutti, senza distinzione di sorta: i politici sono tutti inutili e tutti ladri nell’immaginario collettivo. E al fatto che Ulisse Di Giacomo non sia mai stato nemmeno indagato di nulla, in questo momento non fa caso nessuno».
Ma può esserci un’informazione libera, ma libera per davvero?
«Se ci chiamano “quarto potere” vuol dire che condizioniamo l’opinione pubblica e dirigiamo in qualche modo lo stesso corso degli eventi politici. Termini come “pressione mediatica” o “potere mediatico” sono antitetici a quelli di “libertà” e “obiettività”. Può esserci tuttavia un’informazione onesta, quella che racconta i fatti e li distingue dalle opinioni, e lascia spazio e libertà di espressione a tutti. Un’informazione, voglio aggiungere, più interessata a raccontare una regione, in tutti i suoi aspetti, che ad accusare questo o quello». 
La grande quantità di televisione e quotidiani in Molise non porta a un impoverimento della qualità dell’informazione?
«Per un verso, non si discute, è garanzia di pluralismo. Per altri versi (da parte di qualcuno) porta alla produzione di vera e propria spazzatura. Spazzatura che attinge ai fondi pubblici senza averne diritto, senza uno straccio di organizzazione aziendale, senza offrire posti di lavoro, senza versare un euro di tasse e contributi. E questo è uno scandalo tutto molisano».
Sei consapevole della responsabilità di chi fa informazione? Qualcuno ha scritto: “Non si conosce abbastanza tutto il male che una sola parola può fare a sé e agli altri”.
«Ed è vero soprattutto in tv. La televisione irrompe nelle case gratuitamente, ha un indice di penetrabilità molto più alto di qualunque altro media e può arrecare danni irreparabili alla dignità delle persone. È questo il motivo per cui Telemolise non usa la pagina giudiziaria come un’arma: noi ci limitiamo a diffondere le notizie evitando di utilizzarle a fini sensazionalistici o, peggio ancora, politici. Almeno fino a quando non si arriva a una condanna definitiva. Non lo abbiamo mai fatto per nessuno, né di destra e né di sinistra».
Esiste uno stile Petescia? Mi spiego nel senso di aver creato un modo di porsi davanti alla telecamera per parlare con il pubblico riconoscibile rispetto ad altri.
«Più che uno stile mio personale esiste uno stile televisivo. È il marchio di Telemolise a consegnare familiarità e riconoscibilità: vale per me, per Minicozzi, per Di Tota, per Di Gaetano…  Si chiama, tecnicamente, credibilità trasferita: far parte della cornice Telemolise, parlare dall’elettrodomestico con quel marchio consegna in partenza uno stile autorevole. Poi è chiaro che ognuno si gioca questo status come meglio crede. Non nascondo che mi fa molto piacere quando leggo che sono stata capace di elaborare un nuovo linguaggio, in particolare con gli editoriali. Ma la strada per trovare una reale specificità del linguaggio televisivo è ancora lunga, e c’è tanto da lavorare».
Quanti e quali giornalisti hanno fatto fortuna passando per la scuola Telemolise e in particolare sotto la tua direzione. 
«Fare dei nomi non sarebbe elegante, ma credo che l’importanza, direi la centralità di Telemolise, sotto questo aspetto, sia fuori discussione».
Ritieni, come più di qualcuno dice, che il mestiere di giornalista sia molto abusato: chiunque entra in questo mondo senza che abbia necessariamente delle competenze.
«Lo dico sempre e lo ribadisco anche ora: per tutti i mestieri del mondo esistono requisiti e competenze, titoli, esami, gavette. Non riesco a capire come sia possibile che proprio per i giornalisti, che per professione “parlano agli altri” e dovrebbero dunque sentire il peso di precise responsabilità (anche verso la lingua italiana), non esistano regole certe. Una tv ti mette in mano un microfono e tu vai in giro con la qualifica di giornalista. E diciamo la verità: certi spettacoli di grammatica e di cadenze dialettali fanno rabbrividire».
C’è un’intervista che avresti voluto fare e che non hai fatto?
«Sì, mi piacerebbe intervistare il papa. Gli chiederei se non ritenga vecchio di duemila anni tutto l’impianto della Chiesa Cattolica; se non si sia accorto di gestire il potere temporale invece che quello della destinazione delle anime; se sia mai possibile trascorrere un preziosissimo tempo spirituale tuonando contro gli omosessuali invece che contro gli assassini e i pedofili; se sia una posizione onesta quella di vietare i contraccettivi; se sia giusto lasciare i bambini negli orfanotrofi anziché consegnarli all’amore e alle cure di una coppia di fatto o di una coppia gay. E gli chiederei se gli appaia coerente con la dottrina cristiana il principio di concedere la comunione agli assassini e ai pedofili e impedirla ai divorziati. Che è poi ciò che diceva il cardinal Martini nella sua ultima intervista, che ha fatto tanto clamore. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse? Davvero una grande intervista, di cui andrebbe raccomandata la lettura. Ah, al papa chiederei anche per quanto tempo ancora la Chiesa intende condizionare il voto in Italia».
Al contrario un’intervista che avresti voluto evitare di fare e che invece hai dovuto fare?
«Cosa mi fai ricordare…. Una volta quello che era il mio maestro (Enzo Di Gaetano, ti parlo del 1984) mi mandò allo sbaraglio a intervistare De Mita. E neanche sapevo che faccia avesse. Mi ero pure imparata a memoria la domanda: “onorevole De Mita, l’unitarietà tra le correnti della democrazia cristiana è vera, di contenuto, o di facciata?”. Tutta contenta e gasata mi buttai nella mischia e formulai il quesito. “Veramente io sono Cirino Pomicino”, fu la risposta».
Per non prenderci troppo sul serio, un episodio che ti ha divertito e che ti piace ricordare.
«Una volta entrò un topino a Telemolise. Un musetto nero, due orecchiette pelose, era molto carino. Cominciò a vagare di qua e di là per gli studi e via via che passava si udiva un trambusto di gente che saliva sulle sedie o sulle scrivanie. Ma dico io: che ti può fare un topo? Cercai di prenderlo, senza successo (era spaventatissimo) ma alla fine riuscii a indirizzarlo verso la mia stanza e lui si andò a infilare sotto la biblioteca. Mi faceva pena schiacciato lì sotto, e oltretutto pensavo che avesse fame. Dal distributore automatico presi un pacchetto di fonzies e provai a infilargliene una decina lì sotto. Dopo un po’ si cominciò a sentire un rumore: era lui che rosicchiava fonzies.  È stato lì dieci giorni. Ma la cosa bella sai qual è? Che chiunque entrava nella mia stanza dopo un po’ mi chiedeva: “ma che è ‘sto rumore?”. E se rispondevo “un topo che mangia fonzies”, non mi credeva nessuno!»
Preferisci lavorare con colleghi del tuo genere o più con l’altro genere.
«Non c’è nessuna differenza».
Come dice Marzullo, si faccia una domanda, si dia una risposta.
«Ok: rimarrai a Telemolise per sempre? Per due volte ho lasciato Telemolise. La prima avevo trent’anni e me ne stavo andando a Bruxelles. Una settimana prima di partire mi diagnosticarono una grave malattia – diagnosi per fortuna rivelatasi errata – e dovetti disfare le valigie. “Ma se non vai più all’estero”, mi disse allora Lelio Pallante”, “perché non torni in tv?”. “Guarda che devo morire”, gli risposi. “Scusa, ma non è meglio che aspetti la morte a Telemolise, invece che a casa? Almeno ti distrai!”. Così sono tornata. La seconda volta è stato 5 anni fa e Lelio era d’accordo. La tv aveva spiccato il volo e per me si erano aperti orizzonti professionali molto più ampi. A pochi giorni dal grande evento Lelio morì, senza diagnosi e senza errori. Così sono rimasta».
Pino Cavuoti


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